Le guerre al tempo del virus: la situazione nei conflitti in Libia, Siria, Afghanistan

Mentre in Europa e soprattutto in Italia, media e politica sembrano totalmente assorbiti dall’emergenza pandemica, le principali crisi e conflitti non subiscono l’influenza del coronavirus e registrano sviluppi del tutto indipendenti dalla pandemia che tanto sta condizionando il Vecchio Continente e l’Occidente in generale.  In questa rapido punto di situazione vengono presi in esame tre teatri bellico di grande rilevanza per l’Italia e l’Europa: Libia, Siria e Afghanistan.

Libia

Nella nostra ex colonia, dopo mesi di stallo militare, nei giorni di Pasqua si è registrata un importante sviluppo militare con il tracollo dell’Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar sul fronte occidentale, tra Tripoli e il confine tunisino. Le milizie di Haftar che cercano da mesi di penetrare nella capitale libica da sud e da ovest sono state sconfitte e poi travolte da una massiccia offensiva delle milizie del Governo di Accordo Nazionale (GNA) appoggiate e integrate da milizie siriane turcomanne guidate da ufficiali turchi.

L’offensiva è stata messa a punto e guidata sul campo da ufficiali turchi con un ampio impiego di droni e artiglieria per localizzare e non dare tregua alle forze dell’LNA.Il 13 aprile droni turchi avrebbero colpito il quartier generale nemico uccidendo parte degli ufficiali dello stato maggiore dell’LNA in quel settore del fronte e favorendo così il successivo sbandamento delle truppe di Haftar che ha consentito alle forze di Tripoli di conquistare Sabratha e altre sei città liberando l’intera fascia costiera tra Tripoli e il confine tunisino. Le forze di Haftar si sono ritirate nella base aerea di al-Watiya, una sessantina di chilometri a sud-ovest di Sabratha e, nel momento in cui scriviamo, starebbero negoziando col nemico una via di fuga in cambio dell’abbandono della struttura militare.

La pesante sconfitta dell’LNA sul Fronte Occidentale (dove gli uomini di Haftar hanno abbandonato anche molti mezzi ed equipaggiamenti) rappresenta il primo grande successo conseguito dai turchi e dai mercenari siriani inviati da Ankara la cui consistenza nell’area di Tripoli ha raggiunto un livello di forza considerevole.Secondo fonti siriane e libiche vi sarebbero 5.000 mercenari schierati, circa 500 dei quali morti o feriti in azione e altri 1.600 pronti a sbarcare in Libia dopo l’addestramento impartito dai turchi nel nord della Siria. Altre controffensive del GNA tese a respingere lontano da Tripoli le milizie di Haftar sono attese nel settore di Tarhouna, a sud della capitale e più a est, tra Misurata e Sirte, dove ancora una volta saranno probabilmente i mercenari siriani e i consiglieri militari turchi a condurre gli attacchi.

Il successo del GNA su questo fronte non sembra aver sollevato reazioni in Italia anche se il ritorno di Sabratha e dell’intera costa occidentale della Tripolitania sotto il controllo del GNA potrebbe non essere una buona notizia. Da quelle coste sono salpati per anni barconi e gommoni carichi di immigrati clandestini diretti in Italia e messi in mare da trafficanti scomparsi dopo l’occupazione di quel tratto di litorale da parte degli uomini di Haftar, la cui presenza ha sempre scoraggiato questi traffici. Il ritorno del GNA dovrebbe quindi preoccupare Roma in vista di un ulteriore rafforzamento dei flussi migratori illegali. A inizio aprile ha preso il via l’Operazione Eunavfor Med Irini (Irene), missione dell’Unione Europea tesa a imporre l’embargo dell’ONU sulle armi in Libia e secondariamente contrastare il commercio illegale di petrolio libico e i traffici di esseri umani.

Difficile aspettarsi grandi risultati dall’Operazione Irini: molte armi giungono ai contendenti libici attraverso i confini terrestri o con ponti aerei e pare improbabile che la flotta Ue cerchi lo scontro sul mare con la flotta turca che scorta con le sue navi da guerra i mercantili che riforniscono Tripoli di mezzi pesanti e munizioni. L’operazione Ue è già stata criticata duramente dal GNA sostenendo che senza il controllo anche di vie terrestri e aeree si favoriscono le forze del generale Haftar. La definizione degli schieramenti a sostegno di GNA e LNA sta determinando sviluppi nelle alleanze impensabili solo fino a qualche mese or sono.

Da quando, con i buoni uffici russi ed egiziani, il governo di Damasco ha riconosciuto il governo libico di Tobruk e sono iniziati stretti rapporti anche d’intelligence con l’LNA di Haftar si sono rinsaldati anche i rapporti tra il governo siriano e gli Emirati Arabi Uniti (EAU), un tempo tra i maggiori sponsor dei ribelli anti-Assad. Pare ormai accertato l’invio in Cirenaica, a rinforzo delle milizie di Haftar, di volontari siriani arruolati (secondo alcuni dalla società militare privata russa Wagner) per bilanciare i mercenari filo-turchi schierati con Tripoli. Secondo quanto riferisce un documentato articolo di Middle East Eye, Mohammed bin Zayed (MBZ), il principe ereditario di Abu Dhabi, starebbe facendo strenui tentativi per convincere il presidente siriano Bashar al-Assad a interrompere il cessate il fuoco con i ribelli sostenuti dalla Turchia nella provincia di Idlib.

Per Abu Dhabi significherebbe la sconfitta dei miliziani sostenuti da Qatar e Turchia, impegnare Ankara in un logorante conflitto nel nord della Siria ma anche distogliere l’attenzione turca dal fronte libico permettendo il rilancio dell’offensiva di Haftar.

L’intesa tra queste Nazioni, l’LNA di Haftar e la Siria rischia di avere un impatto geopolitico rilevante tra Medio Oriente e Mediterraneo, costituendo di fatto un asse anti-turco che può coinvolgere anche Grecia, Cipro e Israele. Un asse che può rafforzare il governo siriano finora sostenuto solo da Russia e Iran (ma spalleggiato nella Lega Araba dall’Egitto), allontanandolo dall’orbita di Teheran e portando miliardi di petrodollari emiratini nei programmi di ricostruzione post bellica di cui Assad ha un gran bisogno.

Siria

Dopo i successi conseguiti dalle forze di Assad sostenute dall’aeronautica russa l’offensiva a Idlib, costata la vita a molti soldati di Ankara, è stata sospesa in seguito agli accordi di inizio marzo per il cessate il fuoco tra russi e turchi.

Secondo Middle East Eye gli EAU avrebbero offerto 3 miliardi di dollari ad Assad (250 milioni sarebbero stati già versati prima della tregua del 5 marzo) per riprendere l’offensiva a Idlib e spazzare via i ribelli islamisti legati ad al-Qaeda e Fratellanza Musulmana dall’ultimo lembo di Siria sotto il loro controllo. Difficile che Assad pregiudichi le intese con Mosca (che ora vuole il rispetto della tregua a Idlib) per privilegiare l’accordo con gli emiratini ma è al tempo stesso indubbio che la tregua a Idlib non potrà essere eterna considerata la pretesa di Damasco di completare la riconquista del territorio nazionale.

L’accordo di Mosca del 5 marzo ha interrotto l’offensiva dell’esercito siriano che nelle ultime settimane aveva permesso di riconquistare l’area meridionale e orientale dell’ultima provincia siriana in mano ai ribelli jihadisti. Un’offensiva interrotta dai contrattacchi delle truppe turche, scese pesantemente in campo al fianco dei miliziani jihadisti.

Per verificarne il rispetto della tregua è stato istituito un corridoio di sicurezza di circa 6 chilometri a nord e altrettanti a sud dell’autostrada M4, direttrice chiave che collega Idlib con Aleppo e Latakia, sotto il controllo del governo di Damasco. Dal 15 marzo si tengono pattugliamenti congiunti russo-turchi lungo questa strada, secondo uno schema già collaudato dall’autunno scorso con i pattugliamenti congiunti russo-turchi nelle aree di confine tra Turchia e Siria più a est, nel Rojava curdo. Sul piano politico l’intesa costituisce un successo per entrambi i leader e del resto Putin non avrebbe oggi alcun interesse a indebolire Erdogan.

Putin ha incassato l’ennesimo riconoscimento della “sovranità e integrità” della Siria (che significa non smembrare lo Stato guidato da Assad) e alla lotta contro “i gruppi terroristici”, che dall’ inizio dell’anno hanno lanciato ben 15 attacchi con razzi e droni contro la base russa a Hmeymim, vicino a Latakya. In realtà entrambi i leader sono consapevoli del bluff reciproco e della durata non troppo lunga di questa tregua: Putin non cesserà di aiutare Assad a riprendere il controllo di tutto il territorio nazionale siriano ed Erdogan non disarmerà mai le milizie jihadiste (qaedisti, salafiti, fratelli musulmani ecc..) che finora ha armato, nutrito e stipendiato a Idlib.

Sul piano militare l’intesa, pur precaria, evidenzia la debolezza di Erdogan che a quanto pare ha accusato il colpo delle perdite del suo esercito subite in una guerra di aggressione priva di legittimazione internazionale che, come la presenza in Turchia di milioni di profughi e immigrati clandestini, crea crescenti problemi di consenso a Erdogan e al suo partito AKP. Diverso invece il contesto per le forze di Assad che combattono per riconquistare il proprio territorio e che sono avvezzi alle perdite, anche severe, dopo 8 anni di guerra.

Una debolezza turca che si evince anche dal fatto che Erdogan ha dovuto accettare che le truppe di Assad mantengano saldamente il controllo dell’autostrada M5 e non si ritirino dai territori liberati nelle ultime settimane come pretendevano i miliziani che hanno dovuto accettare di ritirarsi di qualche decina di chilometri dall’area che ancora controllano a sud dell’autostrada M4. Di fatto, l’accordo firmato a Mosca offre alle truppe governative siriane e agli alleati russi, iraniani ed hezbollah libanesi, un valido trampolino per future offensive dirette a circondare il capoluogo Idlib. La debolezza militare di Erdogan, a dispetto delle forze aeree e terrestri messe in campo e dei successi tattici ottenuti impiegando artiglieria, armi antiaeree e droni a supporto dei ribelli, sembra legata non tanto alla capacità bellica di Ankara quanto alla tenuta del Paese nel tempo in un conflitto di logoramento.

Afghanistan

L’accordo tra Talebani e Stati Uniti firmato a Doha (Qatar) a fine febbraio regge, ma in Afghanistan non è certo scoppiata la pace. In marzo gli insorti hanno scatenato centinaia di attacchi contro le forze di sicurezza di Kabul in diverse basi e avamposti e attentati a Kabul con esplosioni verificatesi persino durante la cerimonia di insediamento del presidente Ashraf Ghani, dichiarato vincitore delle contestate elezioni in cui il suo r8vale Abdullah Abdullah si è auto-dichiarato a sua volta presidente dell’Afghanistan.

Ashraf Ghani

Ha preso comunque il via il graduale ritiro delle truppe Usa e alleate dall’Afghanistan e, contestualmente, anche i colloqui di pace tra il governo di Kabul e i Talebani. Una crisi istituzionale che non aiuterà certo Kabul nei negoziati con i Talebani che non hanno riconosciuto la vittoria elettorale di Ghani. Colpisce che il Presidente USA, Donald Trump, abbia ammesso il 6 marzo che i Talebani potrebbero prendere il potere in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe statunitensi che entro luglio scenderanno da 13 mila a 8 mila unità.

Un contesto che sta incoraggiando il ritiro anche tra i contingenti militari alleati tra i quali 800 italiani schierati per lo più a Herat. Le difficili trattative riguardano per ora soprattutto il rilascio dei prigionieri: 200 talebani sono stati liberati dal governo di Kabul e gli insorti hanno liberato 20 soldati e poliziotti

Nonostante i Talebani abbiano interrotto il 6 aprile i colloqui col governo perché pretendevano l’immediato rilascio di 15 loro comandanti, Kabul intende liberare 1.500 prigionieri dei circa 5mila presenti nelle carceri ma chiede in ambio il rilascio di mille persone tenute prigioniere dai ribelli. Con il ritiro delle forze USA e Nato e i dissidi istituzionali che dilaniano il governo sono in molti a considerare difficile una stabilizzazione dell’Afghanistan così come appaiono consistenti le possibilità di tornare al potere a Kabul dopo 19 anni di guerra.