di Maria Cinque
Negli ultimi decenni è diventato sempre più comune parlare dello sviluppo di competenze come finalità fondamentale dell’educazione. Tuttavia, ciò che appare evidente in studi più recenti è che la competenza non è qualcosa di acquisito una volta per sempre ma che va costantemente ‘allenata’ attraverso la pratica e dimostrata attraverso la peformance.
Un esperimento di psicologia cognitiva
Nel 1972 lo psicologo dell’Università di Stanford Walter Mischel condusse un esperimento su un gruppo di bambini di età compresa tra 3 e 5 anni. I soggetti furono lasciati in una stanza con un marshmallow (una caramella), con la promessa che ne avrebbero ricevuto un secondo se non avessero mangiato il primo nei successivi 20 minuti. Non tutti i bambini furono capaci di attendere la ricompensa. Il tempo di attesa risultava inferiore per quei bambini che non avevano alcun tipo di distrazione, come per esempio un gioco nella stessa stanza, o per quei bambini che pensavano insistentemente nella ricompensa. Inoltre, da quanto riferito successivamente dai bambini stessi, “pensieri allegri”, anziché tristi, permettevano di sopportare meglio l’attesa. L’esperimento – “Marshmallow test” – fu replicato più volte. Mischel continuò a monitorare gran parte dei seicento bambini del suo esperimento originario mentre diventavano adulti misurando mediante test e questionari vari aspetti del loro carattere e la loro carriera scolastica. Da questo studio emerse che coloro che erano stati capaci di esercitare un controllo cognitivo sugli impulsi immediati avevano ottenuto risultati scolastici migliori, sviluppato un linguaggio più fluente, erano in grado di coltivare con successo relazioni sociali ed erano in grado di sopportare la frustrazione e lo stress riuscendo facilmente a concentrarsi. Ciò che la ripetizione del test in diversi contesti ha dimostrato è che apprendere l’autogoverno è possibile: per farlo, il bambino deve crescere in un ambiente stabile e affidabile.
Qualità umane piuttosto che quoziente intellettivo
Lo studio di Mischel è sicuramente uno degli studi longitudinali più interessanti che siano mai stati condotti e va raffrontato con un altro studio molto noto, quello di Lewis Terman, anch’egli professore alla Stanford University. Nel 1921 Terman iniziò in California uno studio che coinvolse 1528 studenti, di età media compresa fra 8 e 12 anni, reclutati attraverso cinque fasi che ne ha selezionato progressivamente un gruppo comppsto da quegli studenti che raggiunsero un QI di almeno 135. Attraverso questa ricerca, replicata sugli stessi soggetti più volte, lo psicologo americano voleva dimostrare che il QI non si modifica nel corso degli anni e che la super-dotazione intellettiva in età infantile si traduce in prestazioni eccezionali in età adulta. In realtà, i risultati smentirono questa ipotesi: più dati raccoglieva e analizzava Terman nel corso degli anni, più diveniva evidente che l’intelligenza diagnosticata in età scolare non bastava a spalancare le porte del successo.
Anche Mc Clelland mise in evidenza una sproporzione fra quoziente intellettivo e risultati accademici, da un lato, successo professionale dall’altro: una quota significativa di persone con alto QI e ottimi risultati accademici non ha un soddisfacente successo professionale. Mc Clelland trasse la conclusione che il successo professionale è determinato, oltre che dal QI e dalla scienza acquisita negli studi, anche da altri fattori, che egli chiamò competenze: le conoscenze pratiche, le capacità di ordine tecnico, gli aspetti del carattere, le abilità relazionali.
A partire dagli anni Ottanta del XX secolo è stata messa in discussione l’idea che l’intelligenza sia un costrutto monodimensionale, suggerendo che esistano varie forme di intelligenza, vari modelli e sottolineando l’importanza dell’intelligenza emotiva, accanto a quella ‘razionale’, ovvero delle abilità non cognitive rispetto a quelle cognitive.
Di recente sono state prodotte molte prove che queste abilità, le cosiddette soft skills sono fondamentali per avere successo. Secondo il premio Nobel per l’economia James J. Heckman, «e soft skill sono tratti personali, obiettivi, motivazioni e preferenze che sono ritenute importanti nel mercato del lavoro, ma anche a scuola e in altri ambiti. […] le soft skill sono predittive di successo nella vita […] e, per questo motivo, dovrebbero essere tenute in debita considerazione nelle politiche pubbliche relative allo sviluppo e agli investimenti per la formazione».
Allenarsi all’eccellenza
Alasdair MacIntyre (1981), riprendendo Aristotele, ha precisato che il concetto di ‘pratica umana’ è alla base della possibilità di sviluppo di un organismo umano virtuoso (o competente ed esperto). Essa è vista come «qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, mediante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati. Il risultato è un’estensione sistematica delle facoltà umane di raggiungere l’eccellenza e delle concezioni umane dei fini e dei valori impliciti».
Anche la letteratura manageriale ha sottolineato questo aspetto. Per esempio nel noto best-seller di S. Covey, Le sette regole del successo (1989), l’unità basilare di cambiamento è l’abitudine, poiché quello che facciamo o a cui pensiamo in continuazione fa di noi la persona che siamo e diventa la lente attraverso cui vediamo le cose. Diversamente dall’atto eroico o dalla grande prestazione frutto dello sforzo estemporaneo, un’abitudine scelta consapevolmente, ci permette di ottenere risultati stabili e duraturi nel tempo.
La formazione delle qualità personali è il prodotto di un allenamento della volontà mirato all’acquisizione di un abito acquisibile attraverso la ripetizione di azioni virtuose.
Il governo dell’agire
Il noto pedagogista Dewey ricorda come nel pensiero greco già si era affermato «che l’uomo non poteva raggiungere la penetrazione teorica del bene prima di aver passato anni di abitudine pratica e di strenua disciplina. La conoscenza del bene non era una cosa da ricavare dai libri o dagli altri, ma si otteneva attraverso una prolungata educazione, era la grazia culminante di una matura esperienza di vita».
Del resto, Aristotele non solo distingueva la saggezza (phrónesis) dalla sapienza (sophía), ma subordina la prima alla seconda, affermando che “la saggezza comanda in vista della sapienza” (Etica Nicomachea, VI, 13).
Secondo lo psicologo Bateson (1997), le abitudini mentali sono, in un certo senso, prodotti derivati dei processi di apprendimento, rappresentano il transfer dell’apprendimento, l’imparare ad apprendere e l’acquisizione di abiti mentali che si esprimono ordinariamente come qualità personali, diverse da individuo a individuo.
Soft skills e metacompetenze (il governo dell’agire) sono oggi le nuove direttive di un processo di formazione che punta all’eccellenza e che rappresenta una risposta alla competitività e alla globalizzazione di tutti i mercati, da quelli dei prodotti a quelli delle idee. Le soft skills aiutano a tessere tutte le interconnessioni possibili che collegano sfera cognitiva e sfera emotiva, etica e capacità di organizzazione, spirito di iniziativa a capacità di comunicazione. Investire in metacompetenze oggi significa prima di tutto non perdere mai di vista la visione d’insieme, non lasciarsi risucchiare dalla spirale dell’iperspecializzazione che brucia in fretta i suoi stessi risultati, per apparire superata non appena si esaurisce quel filone. La metacompetenza consente non solo di avere delle competenze, ma di saperle gestire in modo flessibile, senza mai perderne il controllo.
Questo “autogoverno” delle proprie azioni è il prodotto di una conoscenza profonda di se stessi, che può essere attuata in vari modi: con lo studio della filosofia e delle discipline umanistiche, attraverso il coaching, con l’esempio di maestri/mentori/persone eccellenti.
È tuttavia fondamentale, prima ancora di indagare e approfondire teorie e nozioni, imparare a conoscere se stessi. Ricordiamo la celebra frase che nel Fedro Platone fa dire a Socrate:«Per conto mio, o Fedro, considero queste teorie soprattutto divertenti […] Ed io non ho certo tempo per queste occupazioni; ed eccone la ragione mio caro, che non riesco ancora a conoscere me stesso come vuole il motto delfico. […] Donde, lasciando perdere queste storie, e pago dell’opinione comune su di esse, lo ripeto, vado indagando non quelle, ma me stesso, per scoprire se per caso sono un mostro più complicato e fumigante di Tifone, o una creatura più amabile e semplice, partecipe per natura d’una qualche sorte divina e mansueta».
La sfida che ci pone Platone per bocca di Socrate è quella di utilizzare al meglio il nostro tempo e la nostra razionalità, per scoprire qualcosa di ‘vero’ circa noi stessi, senza dare mai nulla per scontato. La sfida vera per i giovani è quella di poter vivere intensamente la realtà e di potersi conoscere a fondo. Per questo motivo all’interno del programma JUMP della Fondazione Rui sono organizzate attività e sono forniti stimoli di vario tipo, ambienti e occasioni di riflessione su se stessi e sul proprio agire, affinché ogni studente, come diceva Pindaro, possa veramente ‘diventare ciò che ha appreso di essere’.