Affrontare l’identità a partire dalle soft skills

Che cosa significa essere ‘uomini’ e ‘donne’? C’è un destino che mi viene incontro perché sono di questo sesso? Oppure il destino lo devo forgiare? Ma, in questo caso, non lo devo forgiare in un modo che sia anche all’altezza del mio essere uomo o del mio essere donna? Da più parti si sostiene che occorra ‘ripensare la differenza’.

Quando ci rappresentiamo un giovane essere umano che si chiede e cerca di capire che cosa comporti  la classificazione sessuale in cui si riconosce e il corpo che si trova ad avere, non dobbiamo però immaginarlo senza parole o riferimenti culturali, come i ragazzi selvaggi di cui i filosofi parlavano alla fine del ‘700: la società cui appartiene gli offre delle risposte e, anzi, anticipa le sue domande attraverso queste risposte. Gli offre dei modelli dell’esser uomo e dei modelli dell’esser donna, formula attese e norme relative all’una e all’altra condizione. Dice ad esempio: un vero uomo non piange, una ragazza come si deve si siede composta. Assegna o interdice delle possibilità pratiche, indica ideali e esempi negativi. Coltiva, a seconda della differenza sessuale, alcune maniere di sentire e alcuni stili di comportamento e di pensiero. Tutto questo è l’enorme sistema di mediazioni sociali della differenze sessuale, il modo in cui la società interpreta e articola il fatto di nascere uomini o donne.

La crisi delle ‘mediazioni culturali’ e la stretta in cui ci troviamo

Ciascuna soggettività, ben lungi dal confrontarsi in uno spazio vuoto col fatto di essere sessuata al maschile o al femminile, lo fa innanzitutto attraverso queste mediazioni. In generale, potremmo anzi dire che è messa a confronto semplicemente con quelle mediazioni e con ciò che le chiedono di essere, di diventare, di sentire, di pensare. Questa affermazione generale, però, non vale più per il nostro tempo. Il nostro è il tempo in cui quelle mediazioni ricevute sono andate in crisi. C’è chi dice che non erano adatte all’evoluzione del sistema capitalistico che se ne sarebbe liberato come di forme consunte che lo impantanavano. È vero, ma c’è anche dell’altro. Quelle forme di mediazione hanno rivelato di non essere all’altezza degli ideali di giustizia, di libertà e di autenticità di cui nel frattempo veniva socialmente distillata una comprensione più alta. Ecco dunque che oggi, quando un individuo cerca di capire e di inventare come diventare l’uomo o la donna che è, non può più affidarsi ciecamente ai modelli tradizionali perché non li sente pienamente rispondenti agli ideali più alti da cui è interpellato. D’altro canto, però, non trova facilmente intorno a sé valide alternative. Ecco la stretta in cui ci troviamo e in cui si trovano a maggior ragione i più giovani.

Ripensare la differenza, a partire dalle soft skills

Tra i libri che con coraggio intervengono in questa stretta per portarvi luce, c’è anche quello curato da Maria Cinque, Mariagrazia Melfi e Antonio Petagine e che inaugura la nuova collana, “Etica e Talenti”, patrocinata dalla Fondazione Rui presso l’editore Orthotes: A misura di uomo e di donna. Soft skills al maschile e al femminile. Si tratta di un libro che intende ‘ripensare la differenza’ a partire da un ambito molto concreto, quello delle competenze trasversali o soft skills: quando ci si mette in relazione con gli altri, quando si comunica o si lavora in gruppo l’essere uomo o donna gioca un ruolo o no? Le domande, le tesi, le proposte che vengono formulate, ma anche le difficoltà in cui talvolta il ragionamento inciampa sono la prova del fatto che c’è un groviglio  nella cosa stessa e che se lo si vuole affrontare per davvero, bisogna accontentarsi di fare qualche passo innanzi su una strada che è ancora lunga.

Il libro è diviso in tre parti. I saggi della prima si propongono di delucidare i concetti fondamentali, da quello stesso di differenza sessuale a quello di soft skills,  attraverso cui le diverse problematiche possano essere articolate e sviluppate. Nella seconda parte viene dapprima raccontato e poi riconsiderato da diverse prospettive di approfondimento il progetto formativo pilota attivato nella residenza romana di Porta Nevia e relativo all’identità maschile e femminile nel nostro tempo e alle soft skills. Nella terza parte, infine, sono raccolte delle testimonianze di tre donne e un uomo che raccontano i modi in cui hanno affrontato la stretta sopra ricordata, quella per cui aspirazioni elevate su cui non siamo disposti a cedere (in particolare: realizzarsi nel lavoro e creare una famiglia, dar corda all’ambizione personale, ma senza sottostare a quelle presunte “regole del gioco” che si avvertono in contraddizione con alcuni importanti beni personali e comuni) ci vengono incontro senza una sicura mediazione che ci insegni come conciliarle.

Per portare alla luce la difficoltà cui accennavo e così contribuire al lavoro di pensiero avviato da questo libro, dirò che il ragionamento di fondo sviluppato nel libro, quello che articola la problematica di base, è come preso fra due poli tra cui non sa decidersi.

Riscoprire l’identità

Potremmo anche dire che vi sono due ragionamenti che si intrecciano e sovrappongono, ma senza potersi veramente unificare. Il primo è il più facile da formulare perché, in un certo senso, è già noto: per far fronte alla crisi dei riferimenti e al disorientamento che ne consegue (è la stretta sopra evocata), occorre trovare la misura in una riscoperta identità maschile e femminile; ciascuno e ciascuna deve riscoprire, ed essere aiutato/a a riscoprire, le risorse del genere cui appartiene; così facendo, si troverà naturalmente anche a donare all’altro quel che è peculiare del proprio genere e a ricevere quel che è peculiare del suo; a chiudere il cerchio, c’è infine la rivelazione che tra queste peculiarità messe in comune esiste un’armonia prestabilita perché sono complementari. Nell’Uomo che ciascuno è, nella Donna che ciascuna è e nel “codice dell’unione” che è inscritto nella complementarità dei due sessi sta la misura per uscire dalla stretta in cui ci troviamo. E le soft skills? Sono le competenze d’essere e le attitudini relazionali peculiari a ciascun genere. Ogni individuo ha da coltivare le proprie, anche grazie a un’appropriata formazione, mentre di quelle che caratterizzano l’altro sesso potrà fruire incontrando e ascoltando concretamente individui di quel sesso.

Questo è il primo discorso, che ci raggiunge forte di un’antica tradizione, che rielabora ad esempio rimarcando di più il tema della relazione. È un discorso che dapprima rassicura come tutto ciò che suona familiare, ma che poi lascia inquieti di fronte a dubbi fondamentali come questo: come facciamo a distinguere queste autentiche identità sessuali in cui sta la vera misura da quelle che erano incastonate nel sistema di mediazioni che è andato in crisi e che è andato in crisi non solo perché non si confaceva al capitalismo predatorio o alla volontà di potenza narcisistica, ma neppure ai più elevati ideali di libertà, realizzazione e giustizia che si sono distillati lungo la storia (quelli, per intenderci, grazie a cui ci indigna e fa ribrezzo pensare di fare di un uomo uno schiavo, di un bambino o di una donna una proprietà, dello stupro un semplice reato contro il buon costume  e dell’ambiente naturale un fondo a nostra insindacabile disposizione)? Come facciamo, ad esempio, a discernere il “significato naturale” dell’esser uomo o dell’esser padre da quei modelli di virilità machista o di paternità autoritaria che si sono trasmessi per secoli e che, oltretutto, venivano presentati come fondati sulla natura delle cose (l’uomo avrebbe una potenza intellettiva più sviluppata di quella della donna, un maggior senso morale, una superiore capacità di autonomia ecc.)? Qualcuno risponde: ci si orienti sulla regola aurea per trovare il giusto modo di essere uomini o donne e poi padri o madri! Eppure, questa regola era nota e ritenuta autorevole anche nelle epoche in cui i modelli maschili e femminili socialmente promossi erano quelli di cui ora noi vediamo i limiti. Non basta il rinvio alla regola, abbiamo bisogno di ciò che Kant avrebbe chiamato lo schema interpretativo. E ormai sappiamo, a partire da Hegel, che questo non può che essere una pratica, con le disposizioni e le attitudini che vi sono legate. Ma quale pratica e quali disposizioni? Forse la risposta è nel secondo discorso?

Il secondo discorso, usando le parole del primo, ne sovverte l’ordine e arriva a dirci qualcosa di nuovo e inaspettato. Il punto di partenza lo possiamo trovare in questa citazione dell’antropologa americana Helen Fisher, riportata da Maria Cinque: «ciascun sesso ha il suo range di abilità (…). Nella mia ricerca ho identificato alcuni talenti che le donne esprimono più regolarmente degli uomini; attitudini che derivano, in parte, dagli ormoni e dall’architettura celebrale delle donne, abilità che i teorici della leadership ritengono oggi essenziali per una leadership efficace. Questi talenti non sono ovviamente un’esclusiva delle donne, tuttavia, le donne li dispiegano molto più regolarmente degli uomini». La Fisher dice due cose, la prima è che ogni sesso ha i suoi talenti, o meglio, ha dei talenti verso cui è più propenso, ma che non sono una sua esclusiva: possono infatti essere coltivati anche nell’altro. La seconda è che i talenti verso cui è propenso il sesso femminile sono oggi ritenuti fondamentali non per svolgere ruoli subordinati, ma per rimodellare la leadership efficace. Il punto qui è la gerarchia. Non si tratta della gerarchia tra uomini e donne, come se occorresse realizzare un’inversione dei ruoli rispetto all’organizzazione che era tramandata da quelle antiche mediazioni che oggi sono in crisi. Non si tratta di produrre una sorta di rovesciamento del patriarcato in un matriarcato pensato sul modello del primo. E tuttavia, il punto è la gerarchia.

Trasformare il modello di leadership

La gerarchia in questione è quella dei talenti, delle soft skills e delle modalità relazionali. Non si tratta semplicemente di coltivare anche i talenti femminili di ascolto, attenzione, cura, empatia ecc.: questo lo si è sempre fatto ed è una delle ragioni per cui questi talenti hanno generato “esternalità positive” lungo la storia. Il fatto è che a questi talenti ora si guarda per trasformare il modello della leadership. E non solo quello: le pratiche educative, le pratiche assistenziali, le pratiche politiche, le forme della contrattazione sul lavoro sono solo alcuni degli altri luoghi che sono presi in quella stretta per uscire dalla quale sempre più uomini e donne prendono a modello le attitudini relazionali e pratiche che sono più femminili che maschili. Senza mettere in questione l’uguaglianza tra uomini e donne, qui si sposta l’attenzione sui modelli e gli ideali pratici ed è qui che arriva la mossa inattesa: l’antica gerarchia che marginalizzava certe attitudini a favore di altre, che ad esempio promuoveva un’idea di autorevolezza connessa a un’idea di padronanza della situazione piuttosto che a un’idea di capacità di confrontarsi con altri, riconoscendo le proprie difficoltà per chiedere aiuto e far leva sull’intelligenza collettiva, ecco, questa antica gerarchia non è criticata per difendere l’uguaglianza di tutti i talenti e le attitudini, qualcosa che lascerebbe nel disorientamento, bensì per sviluppare una gerarchia diversa.

Anche sul piano pratico, ad esempio sul piano formativo, gli obiettivi cambiano. La parola d’ordine non è: “coltivare l’identità sessuale”, bensì coltivare, sia presso gli uomini, sia presso le donne, quelle soft skills verso cui le donne sono più propense, forse per la loro architettura cerebrale, come vorrebbe la Fisher, forse per il nesso tra quelle skills e certe esperienze fondamentali che sono più di donne che di uomini, forse perché storicamente quelle skills sono state coltivate più presso le donne che presso gli uomini o forse per tutte queste ragioni insieme. È un programma di femminilizzazione dell’uomo? Certamente no! Si tratta di inventare percorsi per coltivare anche presso gli uomini attitudini relazionali che riteniamo esprimere un bene per tutti. Naturalmente, se le donne le hanno coltivate di più, sarà semplicemente ragionevole, per apprenderle, rivolgersi a loro e ascoltarle riconoscendole autorevoli. D’altro canto, messi a confronti con questi modelli e queste soft skills come di fronte a modelli e skills di assoluto valore per tutti e non come a attitudini marginali e buone solo per contesti secondari, anche gli uomini potranno usare la loro intelligenza e creatività per arricchirli e introdurvi ciò che riterranno fondamentale e tuttavia al momento assente.

Quello che ci aspetta se ragioniamo con coerenza in questo modo è la partecipazione di uomini e donne alla tessitura di nuove mediazioni attraverso cui articolare che cos’è una vita degna dell’umano che ci accomuna. Per ora sappiamo, anche grazio a questo libro, che le soft skills coltivate ed espresse più da donne che da uomini non potranno mancare in quella vita e avervi un ruolo di primissimo piano. Inoltre, sappiamo che certi stili che sono stati più di uomini che di donne non sono più fungibili perché non più all’altezza della nostra società complessa e degli ideali di giustizia e libertà che sentiamo nostri.