Costruire sé stessi tra limiti e possibilità

Fra le cose che destano meraviglia vi è certamente la costruzione, presa nel suo senso piú ampio e comprensivo possibile, come del resto ci insegna l’etimologia della parola: il verbo “costruire”, infatti, deriva dal latino cum + struere, cioè “accumulare assieme” e il fenomeno dell’accumulare assieme non è tratto esclusivo dell’uomo, né tantomeno dell’impresario edile. Per meglio comprendere il fascino del costruire, vale la pena chiamare in causa un suo stretto parente, che è il “formare” o “formarsi”: esso infatti ci spiega il motivo della nostra ammirazione, che è il manifestarsi di una forma, cioè di una struttura sensata e ordinata. Il fascino che la costruzione esercita su di noi, ovunque essa si attui, è quindi il fascino dell’emergere di una forma, di quel particolare modo di organizzarsi della materia, quale che sia il modo e quale che sia la materia.

La costruzione non è fenomeno soltanto umano, dunque, ma è al contempo innegabile che il costruire umano presenti caratteristiche uniche, in modo particolare perché è anzitutto un modellare il proprio volto, cioè del poter dare una precisa identità al proprio sé. Tuttavia, il progetto di costruzione di sé è fragile, sia per le difficoltà che uno incontra al proprio interno, sia per quelle che vengono dall’esterno. La storia di ciascuno di noi, almeno nel momento dell’esperienza della fragilità, mostra che non può avere soltanto noi stessi come protagonisti: come potrei, specie in un momento di difficoltà, scoprire energie a me ignote, ma in me presenti, senza lo sguardo esterno e non estraneo di un amico?  Il rapporto con l’altro, e l’altro che ci è amico, non solo è sostegno per i nostri limiti, ma sviluppa anche le nostre potenzialità: lasciandoci vedere dalla prospettiva dell’amico, riusciamo a capire come possiamo fare meglio ciò che già ora facciamo bene.

La costruzione di sé e l’etica (o morale)

Nella prospettiva filosofica qui seguita “etica” e “morale” significano lo stesso: riflessione sui costumi, cioè su come si è soliti agire. La riflessione etica, però, non si ferma alla sola ispezione ai fini d’inventario, ma vuol dire qualcosa in piú sul proprio oggetto: lo vuole valutare. Il frutto di questa valutazione è un giudizio e, nel nostro caso, della compatibilità di un certo modo di fare o di agire con la costruzione di noi stessi come umani in generale e come professionisti di questo o quel campo in particolare. Si è detto che il costruire sé stessi è lo scrivere la propria storia: la domanda dell’etica non è altro che l’affiorare della trama che abbiamo in mente per noi stessi, che ci fa chiedere se le due o tre righe appena scritte ne siano sviluppo o distorsione. 

Per poter essere guida efficace alla costruzione di sé, l’etica (o morale) necessita di diverse componenti. Anzitutto di ideali (es. la giustizia) e modelli (es. Franco che incarna l’ideale di persona giusta): l’ideale ci indica una direzione di movimento, mentre il modello ci rassicura del fatto che la meta è effettivamente raggiungibile. Sono necessari, poi, criteri, intesi sia come patrimonio di indicazioni sul “come fare”, consegnatici dalla storia del mestiere o della vita che scegliamo di fare, sia come strumenti per la scelta migliore in una data situazione. I criteri, in questa seconda accezione, sono legati all’idea di valore, che manifesta che qualcosa veramente conta. Ideali, modelli, criteri e valori conferiscono all’etica una forza aggregatrice: attorno agli ideali si radunano persone, così come attorno a valori da tutelare; il modello presuppone almeno una relazione a due (quella fra il modello e chi lo considera come tale); infine, i criteri sono impensabili senza un rapporto di consultazione fra le persone. L’etica è fatta anche di precetti, utili nell’indirizzarci, assieme ad obblighi e vincoli, specialmente quando siamo più esposti al rischio di fare passi falsi. Non è questa la loro unica funzione, però: essi svolgono anche il compito di segnavia, come confini del sentiero che, come tali, quel sentiero rendono presente e percorribile. 

Infine, l’etica bilancia la sua forza aggregatrice con la forza di distinzione, che l’attenzione all’insostituibile originalità di ciascuno genera. Ad ogni modo, si tratta di un bilanciamento reciproco: l’individualità si arricchisce nel rapporto con gli altri, ma lo stare assieme ad altri, a sua volta, è reso possibile dallo sviluppo di capacità individuali di convivenza e si arricchisce nella misura in cui raduna persone diverse, con progetti di vita individuali diversi. La riflessione etica ha bisogno in egual misura di ciascuna di queste componenti essenziali? La presentazione che è stata data ci suggerisce un certo ordine, che ha alla propria testa modelli e ideali, attorno ai quali si costruisce la nostra storia assieme agli altri, e precetti e obblighi come fanalino di coda – per quanto, in certi momenti della nostra vita, siano l’aspetto che piú determina il nostro comportamento.

Da ultimo, resta da chiedersi: fanno etica soltanto gli specialisti, i filosofi morali? Se l’etica, come si è visto, è la riflessione sul proprio agire in vista della costruzione di sé, è chiaro che, chiunque si ponga la domanda sulle sembianze che deve assumere il proprio volto e sui modi per fargliele assumere, fa per ciò stesso etica. Ciò che distanzia il filosofo morale dalla persona qualunque che progetta il proprio destino è la generalità del discorso che l’uno e l’altro propongono: la seconda sarà concentrata maggiormente sulla domanda “Quali voglio che siano gli episodi irrinunciabili della mia storia?”, mentre il primo sul quesito “Quali debbono essere gli episodi irrinunciabili di una storia che sia una storia veramente umana?”. Maggiormente, si è detto, e non esclusivamente: anche il filosofo morale, come uomo con nome, cognome, indirizzo, eccetera, si farà la domanda della persona qualunque; la persona qualunque, a sua volta, si farà almeno in parte le domande del filosofo morale, chiedendosi se il volto che si vuole dare è davvero un volto umano.