Una geografia di aspirazioni: costruire vite rotonde

La nostra vita, qualunque sia il modo in cui pensiamo di condurla, ci mette di fronte ad un fatto: ogni giorno e in ogni momento siano attraversati da desideri molteplici, aspirazioni tra loro diverse, vissuti che toccano in noi corde davvero molto differenti. 

Nessuno di noi desidererebbe un’esistenza monotematica, monocolore e la vita non delude certo questa aspettativa: in effetti, monotematica, semplice e monocolore la vita non lo è mai. Se ci fermassimo un momento a riflettere su che cosa facciamo abitualmente nell’arco di una giornata, ci accorgeremmo facilmente del fatto che in modo del tutto spontaneo ci occupiamo di tante cose, tra loro diverse: ci prendiamo cura della nostra salute e del nostro benessere (dormire, lavarsi, vestirsi, mangiare, riposarci, fare una passeggiata, ecc.); compiamo gesti che ci arricchiscono e/o per cui proviamo gusto (studiare, informarsi, vedere un bel film, giocare, ecc.), coltiviamo relazioni (familiari, amici, colleghi, clienti, ecc.). Oltre a ciò, ci troviamo a gestire emotivamente situazioni, a capire come affrontare problemi, a riflettere su come ci stiamo comportando in questa o in quella circostanza. In certi casi, ci dedichiamo a determinate attività semplicemente perché rappresentano, ai nostri occhi, una buona causa (il volontariato e la beneficienza, l’impegno civile e politico, la fede religiosa). 

Una vita plurale 

Senza la pretesa di stilare esatti elenchi «geometrici», possiamo dire che la vita ci si presenta immediatamente come un mondo plurale, costituito da oggetti diversi di cui prenderci cura: la vita e la salute; quel che ci arricchisce e quel che è giusto, il rapporto con se stessi e con gli altri. 

Eppure, proviamo ad immaginare un giovane dotato e talentuoso, che ha concentrato tantissime energie nello studio universitario e si sente finalmente ripagato dei propri sacrifici dalle prime esperienze professionali, che lo gratificano moltissimo. Non sarebbe bellissimo che questo accada? Non ce lo augureremmo forse per tutti i nostri giovani, in un momento in cui aleggiano sempre di più le ombre della frustrazione e del pessimismo? Eppure, dietro questa felice combinazione c’è un rischio, da cui questo giovane dovrebbe guardarsi e di cui vorremmo parlare in queste pagine: perdere di vista la rotondità della propria vita, fare di una sola dimensione – in questo caso, la professione, ma potrebbe anche essere  una certa passione, una relazione d’amore, un’aspettativa particolare – la propria unica ragione di vita, perdendo di vista il fatto che il mondo dei nostri vissuti appare segnato da una «geografia di aspirazioni».  

Così, anche il nostro giovane che in questo momento è molto «preso» – e ben lo si capisce, avendo dedicato un’intera vita all’acquisizione di certe competenze – dovrà riflettere sul modo in cui si prenderà cura dell’integralità delle dimensioni della propria vita, anche di quelle non legate – almeno non direttamente – al lavoro. Se, per esempio, un’esistenza professionalmente ricca di opportunità fosse però povera nella costruzione di relazioni significative, questo darebbe corso ad una vita che si rivelerebbe, alla lunga, monca, immeschinita e insoddisfacente. Quanti professionisti, capaci e attivi nel proprio ambito professionale, hanno pagato e ancora pagano sulla propria pelle, e a caro prezzo, le proprie trascuratezze e i propri insuccessi nel mondo degli affetti, con mogli, figli e amici, rischiando a volte anche di compromettere perfino i buoni risultati ottenuti in ambito professionale con le proprie crisi affettive? Una tentazione comune, nel cercare di gestire la complessità delle nostre aspirazioni, è quella di credere di poterle coltivare una alla volta: così, si arriva a ritenere, ad esempio, che prima bisogna costruire la carriera, poi l’amore; prima divertirsi, poi fare sul serio; prima pensare a se stessi, poi agli altri; prima concentrarsi sul breve periodo, poi sugli obiettivi a lungo termine. È però evidente che per raggiungere un qualsiasi obiettivo importante, in qualsiasi campo, bisogna impegnarsi a fondo e a lungo, con dedizione e con costanza. Perciò, se pensassimo di rinviare, aspettando il momento buono per dedicarci a una cosa o a una persona, questa può anche sfuggirci definitivamente, mettendoci in quella frustrante condizione di avervi rinunciato con i fatti, senza avere deciso veramente di farlo. Queste prime riflessioni, ci pongono così di fronte a un primo fondamentale passo. Se la vita ci si presenta come una trama di interessi, di aspirazioni, di fini tra loro diversi, una seria presa d’atto di questa complessità ci stimola allora a porci la seguente domanda: come posso occuparmi nel modo migliore di tutti questi beni? Come posso metterli in un rapporto armonico tra di loro? Ma, soprattutto, quale forma posso dare a questa complessità? 

La posizione stessa di queste domande ci fa sentire un po’ come un pittore di fronte a una tela, che prende dalla sua tavolozza colori diversi, per trasformare quella tela bianca in un bel quadro. Il pittore porrà certe cose in primo piano e altre sullo sfondo, ma non lo farà certamente a caso: l’immagine compiuta del quadro che egli ha in mente, come pure il bozzetto preparatorio, guidano l’esecuzione, dando un senso preciso alle figure che il pittore sceglie di dipingere. Anche la nostra vita si presenta un po’ come una tela, che vorremo trasformare in un bel quadro, e non in un insieme abborracciato di macchie mal assortite. Proprio a questo dovrebbe portare l’etica: a promuovere una visione d’insieme della propria vita, che permetta agli uomini di usare bene i colori e le figure, che ciascuno di noi può trarre dalla propria variegata umanità.

Guardarsi dentro 

Agli esordi della filosofia greca, Socrate spronava gli ateniesi, affermando «conosci te stesso!». Che cosa significa questo esattamente? Non era facile dare una risposta a questa domanda ai tempi di Socrate; forse non lo è nemmeno oggi. La pedagogia socratica, incentrata sul dialogo e sulla maieutica, mirava a mettere in guardia dalla tentazione di pensare che nella vita esistano ricette precostituite e astratte, che basterebbe applicare per produrre buone decisioni e piazzarsi sui binari di un’esistenza felice. Il fatto è che guardarsi dentro esige uno sforzo, o meglio un preciso impegno verso se stessi e verso gli altri con cui entriamo in relazione. E questo per due ragioni. 

Innanzitutto, perché non siamo né auto-trasparenti, né semplici. Questa è una delle scoperte più difficili e faticose che si fanno nel corso della vita, a partire proprio dall’adolescenza, ovvero dal momento in cui la costruzione autonoma del sé diventa il compito evolutivo essenziale. «Dentro», in effetti, troviamo aspirazioni, sogni, desideri, talenti, insieme a tensioni, debolezze, ferite, conflitti; troviamo opinioni e idee, abitudini inveterate e spinte al cambiamento, sentimenti e affetti, speranze e paure. Come tenere insieme tutto questo? Come dargli una configurazione, un senso? Queste domande appaiono tanto più urgenti oggi, in cui abbiamo la vivida impressione che il nostro mondo tenda a diventare sempre più spacchettato, rendendo sempre più frammentarie le nostre esperienze. 

Guardarsi dentro implica impegno anche per un’altra ragione: esige la decisione coraggiosa di volerla conoscere la verità su di noi e di volerla ascoltare. Essa ci interessa moltissimo: pensiamo a quanto morbosamente cerchiamo di sapere quello che ci riguarda, o di scoprire che cosa dicono o pensano gli altri di noi. Tuttavia, invece di andare incontro alla verità su di noi, tante volte la evitiamo, soprattutto quando ci fa vedere, senza fronzoli, come effettivamente siamo. In una pagina molto efficace delle Confessioni, Agostino di Ippona osservava che gli uomini, la verità, «la amano quando si rivela, la odiano quando li rivela» (Agostino d’Ippona, Confessioni, X, 23.34): la amano, cioè, quando la brandiscono contro gli altri o quando splende nelle grandi conquiste del sapere, la odiano invece quando li smaschera e quando li costringe a mettersi in discussione. Non ci deve stupire, allora, il fatto di sperimentare una certa difficoltà quando si tratta di guardarsi dentro: non è banale accettare che tante volte formuliamo giudizi affrettati o assumiamo punti di vista parziali, non solo sugli altri, ma anche su noi stessi. Siamo disposti a fare grandi proclami sui «valori», sulla necessità di essere coerenti e sulla nobiltà della «coscienza», soprattutto quando la coerenza e la coscienza sono quelle… degli altri. Quando però la voce della coscienza si rivolge a noi, non siamo forse tentati di fare come Pinocchio con il grillo parlante? 

«Guardarsi dentro» significa anche, certamente, fare i conti con i propri desideri. Un qualsiasi discorso sulle nostre azioni e sui nostri comportamenti sarebbe in effetti destinato ad apparire un cumulo di parole vuote, se non si misurasse con i nostri desideri reali e concreti. La dimensione umana dei desideri appare indubbiamente complessa e articolata. Innanzitutto, i desideri ci spingono a unirci o a possedere qualcosa che ci attrae. La nostra cultura ci spinge certamente a dare molta importanza a quanto desideriamo, bombardandoci con il messaggio secondo cui saremo felici solo quando ci sentiremo emotivamente appagati. Così, abbiamo facilmente l’impressione di dover seguire quello che desideriamo per il semplice fatto di desiderarlo, altrimenti penseremmo di essere dei repressi oppure di comportarci da falsi o da ipocriti. 

Per inquadrare al meglio la questione, bisogna innanzitutto riconoscere che i desideri sorgono in noi in maniera spontanea e hanno radici psicologiche complesse. L’esperienza passionale si rivela, in tante circostanze, tumultuosa, sorprendente, non sempre in linea con quanto riterremmo giusto fare o pensare. Se dunque intendiamo misurarci seriamente con quanto davvero anima i nostri desideri, dovremmo prepararci all’idea di non trovarci di fronte a un piano cartesiano, dai contorni definiti, belli e pronti per essere realizzati. Che si accetti o meno di descriverlo suggestivamente come un «sottosuolo», per usare la nota espressione di Dostoevskij, o che lo si immagini alla stregua del vero e proprio caos che abiterebbe freudianamente il nostro inconscio, il mondo dei nostri desideri appare in ogni caso come un groviglio, animato non di rado da tendenze tra loro opposte e non facili da ricomporre. I nostri desideri ci muovono, ci spingono, ci premono, ma non tutti verso un’unica direzione coerente. Tocchiamo così uno dei nodi centrali con cui misurarci nella costruzione delle nostre azioni e nella dinamica delle nostre decisioni: lasciato a se stesso, il mondo dei nostri desideri non è capace di indicarci una direzione affidabile, in cui collocare le nostre azioni. 

Bighe alate

Per questo abbiamo appena detto, trovo insuperata la metafora platonica della biga alata: un cocchiere, alle prese con una biga alata, formata da due cavalli tra loro molto diversi, uno bianco, uno nero (Cfr. Platone, Fedro, 246A-249D). I nostri desideri sono come quei cavalli, ovvero sono loro a condurci per le strade dell’esistenza, ma possono farlo solo a patto di venire a loro volta guidati. Deve insomma esserci qualcosa, di natura non semplicemente emotiva, che imprima ai desideri, tra loro molto diversi, una direzione, un orientamento. L’immagine platonica ci permette di focalizzare l’attenzione su due aspetti: innanzitutto, bisogna superare un errore di prospettiva, che ci fa pensare di essere semplicemente «passivi» rispetto a quanto emerge dal groviglio dei nostri desideri. Invece, così come i desideri possono sorgere da radici che non sono totalmente o immediatamente sotto il nostro controllo, è altrettanto vero che quello che noi pensiamo e che vogliamo – e a cui abbiamo sinceramente riconosciuto un valore – può illuminare ed orientare i nostri desideri, fino a diventare una loro fonte. Proprio questo è il compito della ragione nei confronti della dimensione emotiva: fornire validi motivi per desiderare, per decidere, per agire e per reagire, per provare piacere e per soffrire. Così, come riconosceva già Aristotele, l’uomo veramente buono non solo compie il bene che ha colto con la ragione, ma impara a provarci gusto nel compierlo. Nel momento in cui si realizzassero queste condizioni, diventando capaci non solo di fare cose buone ma anche di desiderarle, che cosa ci sarebbe di più positivo che «seguire i propri desideri»? Si tratta insomma di prendere coscienza del fatto che il desiderio non trova la sua pienezza quando viene lasciato a se stesso, bensì quando incrocia l’altezza dell’idealità e la profondità della bellezza. Come dicevano due psicologi come Benasayag e Schmit, autori del fortunato L’epoca delle passioni tristi, dovremmo puntare a diventare «uomini di desideri», e non solo «uomini di voglie», e per farlo dobbiamo volere ardentemente che la nostra vita si spenda per qualcosa di bello, di nobile, di duraturo; per qualcosa insomma che, qualsiasi siano le circostanze che la vita ci riserverà, ci farà convinti del fatto che «ne vale la pena». Inteso in questo modo, il desiderio dista mille miglia dal microcosmo asfittico e insopportabile del capriccio. Vi è anche un secondo aspetto su cui il mito della biga alata ci fa riflettere. I cavalli, lasciati alla loro «libera» iniziativa, non farebbero semplicemente finire la biga su una strada diversa da quella a cui magari li indirizzerebbe l’auriga. Essi correrebbero un rischio più grave, ossia quello di scontrarsi, di ferirsi, di capovolgere la biga, provocando non solo la propria morte, ma anche quella dell’auriga. Platone ci spinge così a riconoscere tutta la serietà e la drammaticità che investe la conduzione razionale dei nostri desideri e delle nostre passioni. Si tratta, letteralmente, di un problema di vita o di morte: prima ancora che una questione limitatamente morale, vi è oggi una grave questione di tenuta psicologica nelle persone. I dati Istat del decennio 2005-2014 ci dicono che la salute mentale degli italiani è globalmente peggiorata, viviamo situazioni molto difficili a livello personale, familiare e sociale; non mancano casi di suicidi e omicidi provocati da condizioni psicologicamente insostenibili, le cui vittime sono spesso le persone più deboli, come donne e bambini. Questa condizione fa il paio con il consolidarsi di un sistema culturale imperniato sulla ricerca narcisistica della felicità, segnata dell’idea vagamente nietzschiana di «liberare» le passioni dalla guida della ragione, di vivere a pieni polmoni le proprie emozioni, «spegnendo ogni tanto il pensiero», come cantava Vasco Rossi in Buoni o Cattivi. Il punto è che le «vite spericolate», una volta scoperte le carte, si rivelano, in troppi casi, vite devastate da psicosi, impotenze, maniacalità, collassi psichici, senza sconti per nessun livello sociale e per nessuna età. Che il nostro giovane scandagli allora il groviglio dei propri desideri. Che non si fermi però a questo compito e non si lasci prendere dalla passione del momento. Che costruisca una vita ricca, rotonda, fatta di cura per la propria professione e di affetti, di interessi personali e di impegno sociale, di altezze e profondità culturali, ma anche della sana leggerezza del riposto e dell’allegria. Soprattutto, che sappia prendere una posizione rispetto ai propri desideri, mettendo mano alle briglie della vita e orientando le proprie passioni verso qualcosa che dia loro sapore e valore.