Penso e poi agisco o agisco e ci penso più tardi?

Nel famoso incipit del Faust Goethe fa dire al suo travagliato protagonista: «In principio era l’azione!». Dopo aver scartato il Verbo (das Wort), troppo classico, il senso (der Sinn), troppo intellettualistico e la forza (die Kraft), troppo volgare, Faust trova finalmente pace nell’idea che in principio fosse l’azione (die Tat). Per ora possiamo concederci di non insistere troppo sul fatto che, mentre Faust stava elucubrando questi pensieri, nella sua stanza stava già trotterellando Mefistofele nei panni del can barbone. Sta di fatto che tutta la tragedia del dott. Faust sarà decisamente “pre-giudicata” da questo incipit. Cosa significa porre al principio l’azione, anziché il Verbo, il Logos della tradizione greco-cristiana?Il senso di questa domanda non è accademico (o quanto meno non solo), ma pratico, direi addirittura esistenziale. E potrebbe essere tradotto nelle parole che danno il titolo a quest’intervento: penso e poi agisco oppure agisco ed eventualmente ci penso dopo? In altri termini, cosa guida il nostro agire? Cosa determina le nostre scelte, le nostre decisioni, i nostri orientamenti e, infine, le nostre azioni? Siano esse quelle feriali: cosa fare oggi, domani e dopo domani; che quelle festive o progettuali: che indirizzo di studi vorrò scegliere, che lavoro vorrò intraprendere, che vita vorrò avere.

La tradizione classica

Come rapidamente anticipato la tradizione classica ci ha proposto un modello definito “logo-centrico” dove al principio appunto sta saldamente il Logos, il Verbum della vulgata latina. Una tradizione che avrà nel Cristianesimo un importante rilancio, poiché il Verbo appunto non è un astratto logos, ma è la concretissima Seconda Persona della Trinità, Gesù. Lo sviluppo cristiano di questo tema, d’altra parte, radicalizza un orientamento che la filosofia aveva sì intuito e abbozzato, ma non aveva potuto elaborare oltre, per assenza di dati. Si era riusciti cioè ad ipotizzare con certezza metafisica l’esistenza di un motore immobile, di un pensiero di pensiero (oggi più accuratamente si traduce intellezione di intellezione Cf. Aristotele, Metafisica, E. Berti [a cura di], Laterza, Bari 2017) una sorta di fonte dell’intelligibilità del mondo, ma di più non si era potuti andare. Si era cioè riusciti a capire che non poteva non esistere, in principio, la fonte della comprensione, ma oltre a capirne la necessaria esistenza non ci si era potuti spingere. I latini, con la solita verve icastica avrebbero spiegato che si era risposto alla domanda an sit (se ci sia), lasciando però inevasa quella sul quid sit (cosa sia). Ora appunto il Cristianesimo, con la Dottrina del Verbo, viene in soccorso proprio a quest’altra domanda ancor più fondamentale. Eh già, perché, una volta dimostrata la necessaria esistenza di qualche cosa, la definizione del quid (del che cosa) di quanto ora si sa necessariamente esistente diventa ancor più urgente di quanto prima non fosse. Ebbene, dicevamo, la tradizione ci ha fornito il modello del primato del Verbo, del Logos, della Parola, una Parola che poi, per chi crede, si è fatta carne, e su di Sé ha assunto tutte le contraddizioni, le sofferenze, i dolori per riscattarli, dando loro non solo voce, ma appunto l’articolazione del Verbo. La sofferenza diventa dunque dicibile, anche perché c’è finalmente qualcuno a cui poterla dire, diversamente dall’Urlo di Munch, per dare un’immagine visiva del modello opposto, dove appunto la tragedia sta proprio nell’assenza dell’interlocutore.

L’azione

Eppure, c’è sempre stata, diciamo così, sul mercato delle idee, anche l’altra tesi: quella appunto per cui al principio non ci fosse il Logos, la Parola, bensì l’azione. Un’azione cieca, tellurica, priva di luce e di intelligibilità, connotata da una sorta di forza originaria, senza altra ragione (e come potrebbe?) che sé stessa. I miti antichi ne hanno parlato in molti modi, le filosofie moderne e post-moderne hanno celebrato quest’alternativa come dionisiaca (Cf. Nietzsche, La nascita della tragedia, 1876), come la parte oscura della stessa medaglia che sarebbe l’Occidente. Esiste una sorta di titanomachia al principio della nostra cultura in cui si sono giocati la partita coloro i quali pensavano appunto che l’origine (e dunque anche l’epilogo) fosse intelligibile, luminosa, disponibile alla conoscenza e alla relazione con l’essere umano, e coloro i quali pensavano al contrario che l’origine (e dunque anche l’epilogo) fosse impenetrabile, oscuro, indisponibile ad una relazione che non fosse violenta. Dalla parte dei primi stava l’evidenza della ragione, da quella dei secondi l’evidenza della forza. La partita, almeno sul piano della teoria, fu vinta dai primi perché l’evidenza della ragione è risultata più solida (contro ogni probabilità!) dell’evidenza della forza. Per capire questo si pensi al fatto che l’evidenza appunto, il criterio di discriminazione, è un’idea più imparentata con la ragione che con la forza. È evidente (da ex-video) ciò che si mostra con maggior chiarezza, luce. Accade però che, sebbene la battaglia della teoria sia stata vinta dai primi, i secondi naturalmente si siano arroccati (ma non ritirati) sul piano della prassi. Uno di questi, non senza seguaci, dichiarerà ancora il primato della prassi, proprio a scorno di quanti, a suo dire, sino a quel momento si sarebbero impegnati solo a pensare il mondo, ma non a cambiarlo. Sono diverse le formulazioni storiche nelle quali questo filone sotterraneo del pensiero Occidentale ha ripreso vita.

Just do it!

Tra le ultime possiamo annoverare il notissimo motto dell’altrettanto nota marca sportiva: Just do it! Fallo! Dove il just per lo più non si traduce, perché, se si dovesse tradurre, dovremmo dire: Fallo e basta! Dove questo “basta” suonerebbe non bene quanto dovrebbe in uno slogan, che vorrebbe essere inclusivo. Infatti, il “basta”, se ci si pensa, andrebbe proprio a discapito del pensiero. Basta qui vuol dire: fallo e non pensarci. Insomma, siamo sempre in quella lotta originaria dove la forza vuole imporsi (né potrebbe far diversamente), sul pensiero. Dove il pensiero, se pur gli si lascia spazio, svolge il ruolo di giustificazione a posteriori di qualcosa che invece è già stato agito, “senza ragione”. Just do it! Appunto. Ora, si noti l’asimmetria, mentre l’opzione per il Logos, per il Verbum, non esclude che dopo il pensiero venga l’azione, anzi per molti versi l’attività di pensiero (qui l’enfasi cade sull’altro elemento della relazione) esige il suo compimento nell’agire, l’opzione per l’azione primaria, non contempla questa possibilità. Just … do it! In quest’asimmetria radica la maggior ragionevolezza del primato del Verbo/Logos, perché mentre nell’uno vi è spazio per l’altro, non vale il reciproco.

Il primato della prassi

Oggi diverse “filosofie”, scuole di pensiero, stili intellettuali, in modo più o meno coperto ripropongono questo primato della prassi. Non in modo teorico o esplicito, a’ la Marx, ma in modi più obliqui, per certi versi anche più coerenti, vale a dire senza verbalizzarlo, ma agendolo. Le correnti transumaniste/postumaniste, ad esempio, che spingono per superare senza più remore o vincoli di ordine morale/teorico i limiti dell’umano, fanno proprio perno su quest’idea di homo faber, sganciato dal proprio orientamento al Logos. Ma più che dell’idea questi movimenti vivono dell’industria che attorno ad essi si è andata creando. Se di fatto i teorici di questi gruppi sono poco numerosi e con poco seguito, d’altra parte le imprese che invece vi fanno riferimento hanno una diffusione ed una pervasività molto più alta. La Silicon Valley ne è l’esempio più preclaro (G. Ghilardi, L’uomo analaogico, Orthotes, Napoli 2020).

Il giusto ordine delle cose

Da qui, dunque, l’esigenza e l’appello a custodire il giusto ordine delle cose, del pensiero e dell’azione nella loro fisiologica articolazione. La mitologia greca per descrivere questi due principi plasmò le figure di Prometeo, colui che pensa prima (come da etimo) e di Epimeteo, colui che, pensando dopo, agisce avventatamente. Di Epimeteo si ricorda l’aver aperto (in alcune versioni l’aver permesso che venisse aperto) il vaso di Pandora, donde uscirono tutti mali del mondo, tranne la speranza.