di Stefano Graziosi
La campagna elettorale in vista delle presidenziali americane del 2020 resta per ora avvolta nell’incertezza. L’irruzione del coronavirus, che vede attualmente gli Stati Uniti come il Paese più colpito, ha creato una situazione senza precedenti, in cui non è semplice riuscire a elaborare pronostici per il futuro.
Le primarie democratiche (le più affollate che le storia statunitense ricordi) sembrerebbero essere arrivate a un punto di svolta. Dopo mesi di campagna elettorale rissosi e divisivi, alla fine parrebbe essere riuscito ad emergere Joe Biden, che ha vinto la maggior parte delle competizioni fin qui tenute, ricevendo anche importanti endorsement (come quello dell’ex presidente democratico, Barack Obama, e del senatore del Vermont, Bernie Sanders). Biden resta quindi per il momento l’unico candidato in corsa, sebbene probabilmente non riuscirà a blindare matematicamente la nomination prima del mese di giugno: non dobbiamo infatti dimenticare che – a causa della pandemia – svariati Stati abbiano rimandato le proprie primarie in quel periodo.
Questo fattore potrebbe rivelarsi un problema non di poco conto per l’ex vicepresidente americano. Nonostante sia riuscito a sbaragliare i suoi numerosi concorrenti, Biden – in questa fase – sta riscontrando delle difficoltà nel ritagliarsi uno spazio politico autonomo e riconoscibile nel fronteggiare la crisi del coronavirus. Un elemento che di certo non lo sta aiutando in vista del prosieguo della corsa elettorale. Sotto questo aspetto, l’ex vicepresidente sconta una sorta di “concorrenza” da parte del governatore dello Stato di New York, Andrew Cuomo, che – trovandosi a fronteggiare l’emergenza del virus sul campo – è ormai da settimane in ascesa nel gradimento popolare ed è diventato un punto di riferimento per molti elettori democratici a livello nazionale. Certo: va ricordato che il governatore abbia smentito ambizioni presidenziali per il 2020. Ma è altrettanto vero che lo spazio per una eventuale discesa in campo, sebbene non troppo probabile, resti comunque un’ipotesi sul tavolo. Soprattutto se, nelle prossime settimane, Biden non riuscirà a trovare una strada convincente per accreditarsi quale leader in grado di gestire efficacemente questa fase di crisi.
In tutto questo, un ulteriore problema per l’ex vicepresidente risiede nelle scelte elettorali dei sostenitori di Sanders. Per quanto il senatore del Vermont abbia ormai dato a Biden il proprio endorsement, non è affatto detto che i sandersiani seguiranno automaticamente questa indicazione. Non sarà del resto un caso che, ormai da giorni, l’ex vicepresidente stia cercando di aprire a sinistra, attraverso alcune proposte specifiche (come il rafforzamento del programma sanitario Medicare). Senza poi trascurare che Biden e Sanders abbiano annunciato la creazione di task force congiunte che dovrebbero occuparsi della stesura del programma presidenziale del Partito Democratico. Non è tuttavia detto che questo basti. Non dobbiamo infatti dimenticare che la principale spinta propulsiva degli elettori di Sanders non risieda tanto nelle proposte programmatiche (notoriamente molto spostate a sinistra), quanto – più in profondità – in una netta carica antiestablishment. Una carica che mal si sposa con un candidato, Biden, che dell’establishment costituisce una delle massime espressioni (non solo per i suoi storici legami con le alte sfere di Washington ma anche per i suoi saldi agganci con Wall Street). E’ d’altronde in tal senso che Donald Trump – non certo da oggi – sta cercando di blandire gli elettori del senatore socialista: non dimentichiamo del resto che – alle presidenziali del 2016 – circa il 10% di costoro votarono, in Stati dirimenti come il Michigan e la Pennsylvania, proprio a favore del magnate newyorchese contro Hillary Clinton: un numero di voti relativamente esiguo che gli consentì alla fine di conquistare la Casa Bianca. In questo senso, Biden dovrà impegnarsi non poco per rendersi digeribile alla sinistra del suo partito. E, in tale ottica, sarà necessario capire chi sceglierà come candidato alla vicepresidenza. Lui ha garantito che sarà una donna. E i nomi che circolano sono al momento molteplici.
Anche Donald Trump, dal canto suo, naviga nell’incertezza. Il presidente americano aveva originariamente impostato la propria campagna elettorale sugli ottimi risultati che l’economia statunitense aveva conseguito nel 2019 e nei primissimi mesi del 2020: risultati che, a causa del coronavirus, sono andati in fumo, costringendo l’inquilino della Casa Bianca a mutare strategia in corsa. Se a cavallo tra febbraio e marzo non sembrava avere le idee troppo chiare e si limitava fondamentalmente a minimizzare la gravità del morbo, i pessimi risultati registrati da Wall Street e il progressivo aggravarsi della situazione sanitaria sul territorio hanno spinto Trump verso un approccio economico di stampo prettamente keynesiano. In accordo con il Congresso, la Casa Bianca ha approvato una serie di poderosi stanziamenti di danaro pubblico per il contrasto agli effetti recessivi del morbo. Tra gli altri, ricordiamo un provvedimento bipartisan da oltre 100 miliardi di dollari che – tra le altre cose – prevede tamponi gratuiti, sussidi di disoccupazione e rafforzamento del programma sanitario Medicaid. In secondo luogo, bisogna poi rammentare il mega pacchetto (anch’esso bipartisan) da oltre 2.000 miliardi di dollari, con cui sono stati approvati assegni ai singoli cittadini, sussidi alle famiglie, oltre che stanziamenti per ospedali, aziende e governi statali. Si è trattato di una cifra molto superiore sia ai 700 miliardi usati da George W. Bush per salvare le banche dalla crisi finanziaria del 2008 sia agli oltre 800 miliardi di Obama per il contrasto alla Grande Recessione nel 2009.
Tra l’altro, è altamente probabile che verranno approvati ulteriori pacchetti di aiuti. E non è un mistero che lo stesso Trump voglia approfittarne per spingere sul pedale della riforma infrastrutturale: un suo vecchio pallino che – a causa dell’opposizione della destra repubblicana – si è trovato finora costretto tralasciare. In tutto questo, non dimentichiamo neppure che il presidente abbia fatto ricorso al Defense Production Act del 1950 per potenziare la produzione di materiale sanitario: una mossa che ha trovato il consenso anche di alcuni suoi atavici avversari.
Va rilevato come, con questa via keynesiana, Trump punti a conseguire due obiettivi complementari: contrastare – come detto – gli effetti recessivi del virus e mettere elettoralmente in difficoltà il campo democratico che ha sempre dipinto l’attuale inquilino della Casa Bianca come un nemico del welfare state. Il fatto che abbia trovato una sua strada, non mette comunque Trump del tutto al riparo sul fronte elettorale. La situazione, come detto, resta incerta. Bisognerà quindi vedere come l’amministrazione americana gestirà la crisi sanitaria nelle prossime settimane e se – sul versante economico – le misure di cui abbiamo parlato produrranno gli effetti sperati. Per il momento, l’incertezza è confermata anche dai sondaggi. L’indice di gradimento verso Trump risulta piuttosto volatile da qualche settimana, mentre in alcuni Stati chiave per il 2020 Biden è dato attualmente in vantaggio ma con uno scarto inferiore al 4%. I giochi elettorali per novembre sono quindi ancora decisamente aperti.